giovedì 21 febbraio 2013

Esercizi spirituali. Card. Ravasi: nella società non sempre si dà la possibilità di ricominciare. Questo invece nella Bibbia non esiste, c’è quell’immagine che Dio getta alle spalle i tuoi peccati, in modo che non li guarda più, quindi non ci sono più. È la cancellazione vera

Riconciliazione e penitenza, l’assenza di Dio e il nulla. Su questi temi si è sviluppata la meditazione odierna del card. Gianfranco Ravasi, presidente del Pontificio Consiglio della Cultura, incaricato di predicare gli Esercizi spirituali per la Quaresima al Papa e alla Curia romana. Dopo aver visto il limite che portiamo a Dio, il dolore nella forma fisica e morale, il card. Ravasi propone la meditazione sul delitto, il castigo e il perdono. “Il peccato – evidenzia il porporato – è un atto personale e nasce dalla libertà umana”. E’ ribellione, rivolta, un deviare la meta ma soprattutto un allontanarsi da Dio: “Il peccato è una realtà, prima di tutto, e soprattutto, teologica; può avere anche risvolti psicologici, ma è teologica. Per cui, non potrà mai essere equiparato - il Sacramento della Riconciliazione - ad una seduta psicanalitica, perché è assolutamente fondamentale la consapevolezza di Dio che il peccatore ha”. E’ nella conversione che si trova la via giusta, nel cambiare la rotta e dunque nel cambiare mentalità – come predicava Gesù - lasciando alle spalle le cose alle quali siamo aggrappati. Un percorso che inevitabilmente implica la fatica. E qui Ravasi rilegge la seconda Lettera ai Corinzi di San Paolo, evidenziando un punto sottinteso, un termine giuridico che esprime il legame tra l’uomo e Dio: “Catallasso, catallaghè: questo verbo, tecnicamente parlando, è il verbo che indica l’atto del giudice che tenta di far riconciliare due sposi in disaccordo tra loro. È quel gesto che ormai è diventato famoso - c’è anche nella nostra giurisprudenza ed in molti Paesi - nei casi di separazione e di divorzio: il giudice, di solito, in maniera puramente formale, dice se si vuole giungere ancora ad un accordo. Paolo usa questo verbo, quasi della riconciliazione giuridica; per cui è un verbo che però ha alle spalle la dimensione nuziale - appunto, quel legame che noi avevamo con Dio - legame nuziale che si è infranto con il peccato”. Nel percorso faticoso verso il perdono non manca la tensione, l’attesa, il “fremito profondo”, dice il cardinale Ravasi, per giungere ad essere uomini nuovi: “Nella società non sempre si dà la possibilità di ricominciare: alcuni sono ormai bollati, anche se è vero che nella legislazione ci sono tentativi di ricomporre e riproporre ancora alla società uno che ha sbagliato. Però, rimane sempre questa sorta di timbro sulla persona che è stata - magari a ragione - giudicata peccatrice. Questo invece nella Bibbia non esiste; nel Profeta Isaia, soprattutto, c’è quell’immagine che Dio getta alle spalle i tuoi peccati, in modo che non li guarda più, quindi non ci sono più. È la cancellazione vera”. L’assenza e il nulla: l’uomo senza Dio è la seconda meditazione del card. Ravasi. Un tema – sottolinea il porporato - che nel Salterio è presente in modo ripetuto nel Salmo 14 e nel Salmo 53. Si entra così nel mondo dell’ateismo pratico. Assenza e nulla: due termini che non sono sinonimi; semplicisticamente la prima è nostalgia di Dio mentre il nulla è il vero male della cultura odierna: “E’ l’indifferenza, è la superficialità è la banalità. E’ per questo che io continuo a pensare come si può incidere in qualche modo in questa sorta di nebbia, in questa sorta di mucillagine; è una cosa molle che però non ha nessuna nostalgia, è proprio il vuoto, il nulla, non il vuoto con l’attesa. Ecco, noi, pastoralmente, incontriamo più spesso purtroppo questa seconda forma di ateismo”. Poi, sul silenzio di Dio, il porporato ricorda le tante volte che un credente avverte questo orizzonte: “Pensiamo anche a noi stessi, tutte le volte che abbiamo provato, magari attraverso la tiepidezza, attraverso lo scoraggiamento, il silenzio di Dio, l’assenza. Per noi non era del tutto scomparso dall’orizzonte però non Lo sentivamo più. Vorrei che noi tutti, che siamo vescovi, la maggior parte di noi, pensassimo un po’ al clero, a molti preti che vivono questa esperienza e magari non hanno quella capacità di elaborazione che dovrebbero avere, che noi dovemmo dare loro. Credo che soprattutto quanti tra di voi sono stati vescovi di Chiese, pastori di Chiese, questa testimonianza la potete dare voi”. Eppure il salmista, dopo aver provato il silenzio di Dio, riesce - in conclusione del Salmo 22 - ad esclamare: “Tu mi hai risposto!”. Così la preghiera diventa un inno di ringraziamento che è segno di fiducia dopo le ore vuote, perché le nostre suppliche non cadono mai nel nulla. Infine, al termine della sua meditazione, il cardinale Ravasi offre un nuovo spunto di riflessione riportando le ultime parole del drammaturgo dell’assurdo Eugene Ionesco, un ateo che prima di morire scrisse queste frasi: “Pregare. Non so chi. Spero Gesù Cristo ”.

Radio Vaticana