sabato 8 dicembre 2012

L’8 dicembre 1962 Giovanni XXIII chiude solennemente la prima sessione del Concilio Vaticano II: ci rimane ancora da percorrere un lungo cammino, ma il Supremo Pastore della Chiesa rivolgerà costantemente le sue amorevolissime attenzioni a ciascuno di voi

L’8 dicembre 1962, nella Basilica Vaticana, Giovanni XXIII chiude solennemente la prima sessione del Concilio Vaticano II. Il Papa ricorda che l’assise ecumenica si è aperta quando si celebrava la festa della Divina Maternità di Maria, ed ora questa prima parte si chiude nel giorno in cui si celebra l’Immacolata Concezione. Nella stessa ricorrenza dell’8 dicembre, nel 1869, Pio IX inaugurava il Concilio Vaticano I. “È utile meditare su queste coincidenze”, osserva il Papa, perché da esse è logico dedurre che i grandi avvenimenti della Chiesa hanno sempre Maria come materna protettrice. Quel discorso di chiusura della prima sessione avveniva al termine di una settimana che aveva visto altri due interventi del Pontefice seguiti con particolare attenzione e apprensione dai fedeli di tutto il mondo. Papa Giovanni stava male. Nelle ultime settimane di novembre si erano resi più evidenti e gravi i segnali del male che ormai lo stava minando. I giornali avevano dato notizia di una emorragia che lo aveva costretto a letto. Un bollettino medico parlava di “eteroplasia” per non usare termini più crudi. Mercoledì 5 dicembre 1962, dopo l’Udienza generale, il Papa si era affacciato dallo studio privato per la recita dell’Angelus e per tranquillizzare la folla dei fedeli che gremiva Piazza San Pietro e alla quale si erano uniti moltissimi Padri conciliari: “Figliuoli, la Provvidenza ci accompagna. Come vedete, da un giorno all’altro un progresso: non nel cadere, ma nel risorgere piano piano. Malattia, convalescenza: siamo alla convalescenza. La gioia della presente accolta è motivo di letizia; accenno della forza e robustezza che tornano”. Venerdì 7 dicembre Giovanni XXIII, visibilmente affaticato, aveva rivolto un saluto ai Padri conciliari al termine della 36° Congregazione generale che chiudeva la prima sessione. In quella occasione aveva manifestato all’assemblea tutta la sua riconoscenza per i lavori fino allora svolti, aggiungendo gli auguri per un proficuo proseguimento del Concilio. L’8 dicembre, ancora nella Basilica di San Pietro per la cerimonia di chiusura "pro tempore", il Papa traccia un primo bilancio dei lavori dell’assemblea rilevando che “la prima sessione ha aperto per così dire le porte, con un certo stile lento e solenne, alla grande opera del Concilio: fu cioè un inizio nel quale i Padri con animo alacre si potessero inserire in pieno nella causa e nell’intima ragione di questa impresa, cioè del piano divino”. Ora, proseguiva Giovanni XXIII, ricordando gli schemi di cui si era discusso nei due mesi d’avvio, tra i quali primo quello sulla sacra liturgia, “i nostri occhi si volgono al lavoro che nel prossimo intervallo di nove mesi sarà compiuto, sebbene avvolto dal silenzio, ma con non minore impegno, quando sarete tornati alle Sedi di cui portate il titolo”. E si diceva sicuro che “il nostro lavoro collettivo non si interrompe con questa solenne celebrazione: anzi, le fatiche che ci attendono sono certamente da ritenere più gravi e più importanti di quelle che ci furono durante gli intervalli degli altri Concili ecumenici. Infatti per le condizioni della vita moderna sono resi più facili frequenti interscambi di ogni genere riguardo ai singoli individui e alle forme di apostolato”. Qui il Papa faceva riferimento alla Commissione “appena costituita”, con il compito di seguire e dirigere i lavori nei mesi dell’intersessione, unitamente alle altre Commissioni, per condurre a felice conclusione il Concilio, auspicando che ciascun vescovo, anche se occupato nell’impegno pastorale, “mediterà e valuterà attentamente gli schemi ora proposti e gli altri documenti”, in modo che “la sessione che si terrà nel prossimo mese di settembre potrà procedere con sicurezza e più speditamente, approfittando dell’esperienza degli incontri tenuti nella prima sessione”. Da ciò, proseguiva il Papa, “è lecito sperare che l’anno venturo, che sarà il quarto centenario della fine del Concilio ecumenico di Trento, avverrà che tra le sante gioie del Natale del Nostro Signore Gesù Cristo si possa giungere a quella conclusione dei lavori che i nostri amatissimi popoli attendono”. A tal fine, concludeva Papa Giovanni rifacendosi all’immagine a lui cara della nuova Pentecoste, oltre all’impegno dei vescovi “a predicare la sana dottrina e ad eseguire con solerzia le leggi del Concilio, si dovrà chiamare in aiuto anche l’opera dei sacerdoti dell’uno e dell’altro clero, degli istituti religiosi e dei laici, secondo il compito e le possibilità di ciascuno. Dovere di tutti quanti sarà questo: che i fedeli corrispondano con volontà dinamica e fedele alle fatiche del Concilio. Allora senza dubbio brillerà la nuova desiderata Pentecoste, che arricchirà abbondantemente la Chiesa di energie spirituali ed estenderà il suo spirito materno e la sua forza salutare in tutti gli ambiti dell’attività umana”. Angelo Roncalli sapeva che stava male. Sapeva che non sarebbe stato lui a portare a termine l’impresa del Concilio. Eppure le sue ultime parole di quel discorso di chiusura (ma appunto, una “chiusura” pro tempore) risuonano come un messaggio di ottimismo, di speranza, di fede incrollabile, di certezza che lui avrebbe, comunque, vegliato: “Ci rimane ancora da percorrere un lungo cammino; sappiate però che il Supremo Pastore della Chiesa rivolgerà costantemente le sue amorevolissime attenzioni a ciascuno di voi, mentre sarete intenti ai compiti pastorali, che non sono per nulla disgiunti dalle cure e dalle sollecitudini per portare a termine il Concilio”. Il Papa concluse invocando ancora una volta l’assistenza della Vergine Maria e di san Giuseppe e salutando i Padri conciliari con “il bacio santo”, secondo l’espressione dell’apostolo Paolo nell’epilogo della Lettera ai Romani.

SIR 

Chiusura del primo periodo del Concilio (8 dicembre 1962)