martedì 2 ottobre 2012

Seconda udienza del processo a Paolo Gabriele. L'interrogatorio: mi dichiaro innocente ma colpevole di aver tradito la fiducia del Papa. Nessun complice, volevo trovare una persona con cui condividere lo sconcerto

Questa mattina, intorno alle 9.15, è iniziata la seconda udienza del processo all'ex aiutante di camera di Benedetto XVI, Paolo Gabriele, imputato per il reato di furto aggravato, mentre la posizione di Claudio Sciarpelletti, il tecnico informatico della Segreteria di Stato accusato di favoreggiamento, è stata stralciata e il processo a suo carico non ha ancora una data in calendario. Un’ora e dieci minuti, tanto è durato l’interrogatorio di Gabriele che ha ricostruito tutta la vicenda: ''Riguardo all'accusa di furto aggravato mi dichiaro innocente''. Quindi l'imputato ha aggiunto: ''Mi sento colpevole di aver tradito la fiducia che aveva riposto in me il Santo Padre che sento di amare come un figlio ama il Padre''. L'ex maggiordomo ha proseguito: ''Non ho avuto complici nel modo più assoluto nell'azione che mi viene contestata''. Tuttavia Gabriele, rispondendo al presidente del tribunale Giuseppe Dalla Torre e al promotore di giustizia Nicola Picardi, ha ricordato che nel corso degli interrogatori cui è stato sottoposto durante la fase istruttoria aveva ''aveva fatto il nome di altre persone con cui era entrato in contatto''. Si tratta, ha aggiunto, ''di un numero di persone enorme''. Il maggiordomo del Papa parlò al segretario del Papa delle informazioni riservate che aveva raccolto sui gendarmi vaticani. Dopo aver riferito delle preoccupazioni che a suo avviso albergavano tra i gendarmi vaticani quando, nel 2010, fu allontanato il cappellano militare del corpo, Paolo Gabriele ha spiegato di aver raccolto informazioni da due persone, il dottor Vincenzo Mauriello, minutante della Segreteria di Stato, e Luca Catano, della confraternita di San Pietro e Paolo. Sarebbe quest'ultimo che avrebbe consegnato a Gabriele il testo ''Napoleone in Vaticano'', in seguito diventato un capitolo del libro di Gianluigi Nuzzi con lo stesso titolo. "A quel punto ho cominciato a sentire la responsabilità di come gestire le informazioni che raccoglievo, tanto che fu il segretario particolare del Papa a chiedermi cosa sapevo della Gendarmeria. Io ho risposto aprendogli il mio cuore, offrendogli la possibilità di fargli conoscere chi mi aveva fatto queste confidenze". Ciò, ha spiegato Gabriele, perché già "a inizio del mio incarico chiesi a don Giorgio come comportarmi quando raccoglievo informazioni, cosa che accedeva poiché lavoro in Vaticano dal 1997 sono conosciuto e avevo la fiducia di tantissime persone". L'ex assistente di camera del pontefice ha raccontato anche che quando andava o tornava da lavoro a casa veniva fermato in continuazione da persone che gli chiedevano consigli o aiuti, "e io non sapevo dire di no". Per evitare questi incontri, però, si recava a volte in macchina a lavoro. Contatti poi vi furono, senza che questi vadano considerati complici, secondo quanto è emerso dal dibattimento in aula, con il card. Angelo Comastri, vicario del Papa per lo Stato della Città del Vaticano e arciprete della Basilica di San Pietro, con Francesco Cavina, attuale vescovo di Carpi e fino al 2011 officiale della Segreteria di Stato presso la sezione dei rapporti con gli Stati, quindi con Ingrid Stampa, ex governante di Benedetto XVI, infine con il card. Paolo Sardi. Il promotore di giustizia ha chiesto conto a Gabriele di quanto detto nell'interrogatorio sul fatto di essersi sentito "suggestionato" dalla "situazione ambientale", parlando di vicende che costituivano "scandalo per la fede", e delle "confidenze che scambiava - è stato ricordato - con il card. Comastri, mons. Cavina, il card. Sardi, che aveva definito "una specie di guida spirituale", e Ingrid Stampa. Il magistrato gli ha anche chiesto se c'era solo "suggestione" e anche "collaborazione". Gabriele ha però risposto di non riconoscersi in tale “ricostruzione”, frutto di una “estrema sintesi di un discorso molto più ampio" su quanto l'aveva spinto a fare quello che ha fatto. Ha ricordato che i suoi rapporti con prelati partivano dai primi tempi del suo lavoro in Vaticano, in particolare alla Segreteria di Stato, dove quello con Sardi era stato un “primo approccio” con una persona poi da lui individuata come “un punto di riferimento”. “Poi negli anni - ha aggiunto le cose sono cambiate e ora ritengo di non poterlo più definire come una guida spirituale”. L'ex maggiordomo ha contestato si potesse usare la parola “suggestione” in relazione alle persone citate, e tanto meno si potesse parlare di “collaborazione”. Dalla seconda udienza del processo è poi emerso che si chiama padre Giovanni il confessore cui l'ex maggiordomo ha consegnato i documenti riservati, fotocopiati nell'appartamento del Papa. ''Quando la situazione è degenerata - ha detto Gabriele nell'udienza - ho capito ancora più fortemente che dovevo consegnarmi alla giustizia, ma non sapevo come''. ''Il primo passo - ha aggiunto - è stato spirituale. Sono andato da un confessore a spiegare cosa avevo combinato''. Quindi Gabriele ha portato al confessore la seconda copia dei documenti fotocopiati (l'ex maggiordomo ha detto di aver fatto in tutto due copie dei documenti, una da consegnare all'esterno e l'altra da conservare affinché rimanesse prova di quello che effettivamente riguarda le sue azioni). ''Il confessore - ha detto poi Gabriele - si chiama padre Giovanni''. Non è stato detto il cognome. "La fase clou della raccolta dei documenti riservati è cominciata nel 2010'', cioè quando ''è emerso il caso di mons. Carlo Maria Viganò'' ha detto l'ex maggiordomo del Papa. Ancora Gabriele ha spiegato che la ''raccolta di documenti è andata avanti dal 2010-2011: a volte raggruppavo le carte, seguivo il mio istinto''. Si tratta di documenti che sono stati, secondo Gabriele, ''solamente fotocopiati''. Nel tempo "ho maturato la convinzione che è facile manipolare la persona che ha un potere decisionale così importante". "A volte - ha detto -, quando sedevamo a tavola, il Papa faceva domande su cose di cui doveva essere informato". "Non ero così illuso da non sapere di doverne pagare le conseguenze - ha detto ancora Gabriele - ma non mi ritengo l'unico ad aver dato nel corso degli anni documenti riservati alla stampa". L'ex assistente di camera del Papa ha spiegato: "Cercavo una persona di fiducia con cui sfogare il mio stato d'animo di sconcerto per la situazione divenuta insopportabile, uno sconcerto che in Vaticano era ad ampio raggio". Gabriele ha negato di aver ricevuto ''soldi o altri benefici'', per sè' o per altri, in cambio dei documenti riservati pubblicati da Nuzzi. ''Questa era la condizione iniziale e essenziale nell'intessere relazione con questa persona che non era intenzionata a darne e io a riceverne. Ho avuto solo effetti distruttivi'', ha dichiarato Gabriele, che ha sottolineato di non aver voluto nemmeno ''favorire'' altre persone con la pubblicazione dei documenti nel libro ''Sua Santità'': ''Il libro non è certo stato voluto da me'', ha spiegato. Ha ribadito che non ha mai preso soldi, mai avuto una pepita d’oro e mai visto l’assegno da 100 mila euro, rinvenuti, secondo le carte processuali, in casa sua, in Vaticano dopo essere stati sottratti dall’appartamento papale insieme a una copia rara dell’Eneide. Il libro, di cui ignoravo il valore – ha comunque precisato l’ex aiutante di camera – mi è stato dato da mons. Gaenswein, segretario del Papa, per i miei figli. “Non escludo, ma non è un’assunzione di colpevolezza – ha comunque aggiunto – che l’assegno sia potuto finire nelle carte che avevo fotocopiato”.

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