lunedì 1 ottobre 2012

Card. Levada: il Concilio Vaticano II, come tutti gli altri della tradizione apostolica, trova la sua interpretazione autorevole non nel giudizio di singoli o gruppi, bensì nel Magistero della Chiesa

Mentre i teologi esplorano la storia del Concilio, per meglio determinare il significato dei suoi documenti, il Magistero della Chiesa, che ha il giudizio finale sulla corretta interpretazione del Concilio, è stato attivamente impegnato nella sua applicazione, nel corso degli ultimi 50 anni. Il Vaticano II è stato essenzialmente un Concilio ecumenico e pastorale di cui non è possibile distinguere tra la “lettera” e lo “spirito” e al quale si può solo applicare un’ermeneutica della “riforma” secondo quanto ha dichiarato Benedetto XVI nel discorso alla Curia romana del 2005. Questo in sintesi il pensiero espresso dal card. William Levada (nella foto con Benedetto XVI), prefetto emerito della Congregazione per la Dottrina della Fede (ribattezzata così da Paolo VI alla vigilia della conclusione del Concilio), nel corso della sua prolusione al Convegno della settimana scorsa presso la Catholic University of America di Washington dal titolo "Riforma e rinnovamento. Il Vaticano II 50 anni dopo". Tra i relatori il gesuita John W. O’Malley della Georgetown University, autore di uno dei volumi più apprezzati sulla storia del Concilio. E’ vero che non è stato convocato per formulare nuovi dogmi, né per correggere errori dottrinali, com’era stato nei Concili precedenti, ma non dobbiamo dimenticarne il contesto storico: al termine di due guerre mondiali e del colonialismo, in piena guerra fredda. La Chiesa, fino ad allora “eurocentrica”, ha radunato vescovi da ogni continente e si è occupata delle istanze che provenivano da ogni parte del mondo, in particolare delle tante persone colpite da povertà e malattie. “In questo contesto la Chiesa doveva necessariamente affrontare le questioni di fede dal punto di vista della condizione del mondo”. “Da questo però, non si può dedurre che i suoi insegnamenti non siano tali. L’annuncio del Vangelo della vita e della salvezza è il compito primario del vescovo, un compito pastorale e dottrinale. Così anche l’insegnamento del Magistero ordinario universale (il collegio dei vescovi con a capo il Papa) non deve essere considerato un insegnamento di serie B, un optional”. L’affermazione del Concilio come eminentemente pastorale è stata usata, spiegava Levada, da mons. Lefebvre per sollevare dubbi sul fatto che si possano legittimamente rifiutare i suoi insegnamenti e le sue applicazioni, ma non è così. “Anche il Vaticano II, come tutti gli altri della tradizione apostolica, trova la sua interpretazione autorevole non nel giudizio di singoli o gruppi, bensì nel Magistero della Chiesa. Per cui, come già affermato da Giovanni Paolo II, gli insegnamenti del Vaticano II, anche se non proclamati infallibilmente, devono essere considerati come normativi anche oggi. Invece che discutere se pastorale o dottrinale, dovremmo definire il Vaticano II un Concilio “pastorale e dottrinale'”. Perché le “novità” ci sono state: una fra tutte è il Sinodo dei vescovi, caldeggiato dal Concilio e introdotto da Papa Paolo VI, “un buon esempio di una riforma concreta nella struttura della Chiesa che ha ripreso l'antica pratica della sinodalità e dato risalto al più alto livello nella Chiesa”. Non tutte le riforme però sono da accettare. Un esempio: in Olanda per arginare la scarsità di preti hanno proposto non solo l’ordinazione di donne e uomini sposati, ma anche di celebrare l’eucaristia senza prete (contro il CCC n. 1411). Una riforma buona è invece per il card. Levada l’"Anglicanorum cetibus", in risposta alle richieste degli anglicani che chiedevano di diventare cattolici, pur mantenendo alcune delle loro tradizioni (il matrimonio dei ministri ordinati, i riti funebri, le preghiere in lingua inglese e alcune strutture di partecipazione dei laici).

Maria Teresa Pontara Pederiva, Vatican Insider